Grazie a questa versione digitale, elaborata da Enjoymuseum per METS percorsi d’arte, potrai scoprire gratuitamente e comodamente da casa tua ben ottanta capolavori di pittura e scultura di maestri come Boldini, De Nittis, Fattori, Segantini e Pellizza da Volpedo. La rassegna, a cura di Sergio Rebora ed Elisabetta Staudacher, testimonia l’importanza storica del fenomeno del collezionismo nello sviluppo delle arti in Italia, dall’Unità nazionale ai primi anni del Novecento.
I SEZIONE
Il Risorgimento nazionale tra epica e cronaca
Attorno al 1860, con la creazione del regno d’Italia sotto la monarchia dei Savoia, in pittura e in scultura si diffonde un nuovo repertorio di soggetti ispirati alle guerre di Indipendenza e alla loro ripercussione nella vita quotidiana. Le scene di guerra vengono rievocate in grandi composizioni, alcune di tono dichiaratamente celebrativo, spesso destinate alle rassegne d’arte. Inoltre risultano assai numerosi dipinti e sculture in cui gli artisti elaborano scene di genere, cioè attinenti a una quotidianità osservata con estrema attenzione nei confronti degli aspetti narrativi, spesso con finalità educative o moralistiche. Protagonista di tali composizioni è il mondo degli affetti familiari: la partenza di un soldato volontario per il fronte, l’arrivo ai familiari rimasti a casa di una lettera inviata dal campo, l’emulazione delle gesta eroiche da parte dei bambini, l’attesa, la trepidazione, il rimpianto e la nostalgia come sentimenti più spesso manifestati dai personaggi attraverso l’espressione del viso e la gestualità.
Giovanni Fattori
Artiglieri sul Lungarno, 1890 circa
Olio su tela, 40 x 71,5 cm
Una fonte documentale inedita e di grande importanza è la pubblicazione di una bella incisione del dipinto, che risulta firmata in basso a sinistra “IX°”, e fuori incisione sul bordo in basso a destra reca la scritta “L. Nono”, nella rivista “Ausonia”. L’incisione è esattamente uguale al dipinto, se non per la firma che in questo manca e per la presenza di lontani caseggiati con il campanile di una chiesa, che si intravedono dietro la piramide dei fucili, assenti nella stesura ad olio. L’incisione potrebbe essere stata fatta dal dipinto, come accade normalmente, ma allora significa che questo è stato pubblicamente esposto in qualche occasione, oppure potrebbe essere stata tratta da un disegno. Tuttavia in entrambi i casi, se è vero quanto riporta Mario Nono che il pittore ripudiò questa composizione, resta un mistero il perché egli, nel 1881, l’abbia scelta per una riproduzione di larga diffusione.
Luigi Nono
La fanfara dei granatieri, 1875
Olio su tela, 72,5 x 135
Una fonte documentale inedita e di grande importanza è la pubblicazione di una bella incisione del dipinto, che risulta firmata in basso a sinistra “IX°”, e fuori incisione sul bordo in basso a destra reca la scritta “L. Nono”, nella rivista “Ausonia”. L’incisione è esattamente uguale al dipinto, se non per la firma che in questo manca e per la presenza di lontani caseggiati con il campanile di una chiesa, che si intravedono dietro la piramide dei fucili, assenti nella stesura ad olio. L’incisione potrebbe essere stata fatta dal dipinto, come accade normalmente, ma allora significa che questo è stato pubblicamente esposto in qualche occasione, oppure potrebbe essere stata tratta da un disegno. Tuttavia in entrambi i casi, se è vero quanto riporta Mario Nono che il pittore ripudiò questa composizione, resta un mistero il perché egli, nel 1881, l’abbia scelta per una riproduzione di larga diffusione.
Gerolamo Induno
La partenza per il campo, 1866
Olio su tela, 95,5 x 120 cm
Questa tela rappresenta uno spartiacque ideale ed un vertice assoluto nella parabola artistica di Induno. Gli aspetti complementari della sua produzione, il realismo emozionale delle tele di battaglia dipinte sul vero e il privato sentimentalismo delle tele di genere, sono ora riassunti in un verismo ideologico che riscopre una dimensione di assoluta modernità. All’indomani della raggiunta Unità, occorreva trasferire le spinte risorgimentali sul piano generale di un’appartenenza nazionale. Proprio in questa dimensione collettiva vi era una risposta al senso spirituale della lotta risorgimentale che ci permette di interpretare l’impianto compositivo e il dosaggio di spazio e pathos entro un ordine classico: alla quadri partizione verticale dei piani corrisponde una sapiente alternanza di pieni e vuoti e di tagli prospettici improvvisi. Se la ricerca induniana si sofferma su importanti dettagli – il moschetto e la giberna in cuoio della bandoliera, la dragona della sciabola, la sella affardellata con il pastrano di panno turchino, il pistolone, l’involto di paglia, la gavetta e le cifre reali ricamate in filo bianco sulle punte della gualdrappa – è per immedesimarvi il significato spirituale della vita militare. L’universo corale e ideologico di quest’opera avrebbe così rappresentato agli occhi di contemporanei e committenti le aspirazioni indipendentistiche di un intero popolo, vale a dire la coscienza collettiva della nazione.
II SEZIONE
L’Italia delle regioni: scene di città ed episodi di vita contadina
Negli anni 60 e 70 dell’Ottocento la nuova Italia unita risulta un paese connotato dalla sua secolare suddivisione in realtà municipalistiche con profili economici, sociali e culturali contrastanti. Nonostante l’azione politica dei primi governi tenti di agevolare fenomeni di aggregazione e di omologazione, le impronte regionali resteranno a lungo nel tempo. A ciò si aggiunge la profonda divisione tra il Nord (in cui è presente una rete industriale e commerciale) e il Sud (dominato da una economia agricola e pastorale). Ma anche le regioni dell’Italia settentrionale e centrale sono in gran parte ancora occupate da campagne, colline, boschi; lambite da mari; punteggiate da una fittissima rete di piccoli paesi. Nelle loro composizioni pittoriche, spesso al confine tra la veduta paesaggistica e la scena di genere, gli artisti italiani nel secondo Ottocento illustrano con estrema sensibilità tali differenze, soffermandosi a descrivere i diversi usi e costumi della piccola borghesia e del proletariato delle città e, soprattutto, quelli dei contadini impegnati nei lavori agricoli, condizionati dall’immutabile ciclo delle stagioni.
Luigi Nono
Refugium peccatorum, 1883
Olio su tela, 116 x 188 cm
La prima versione, caratterizzata dalla veste bianca della donna, viene esposta con successo al Circolo Artistico a Venezia nel 1881. L’attenzione di Nono è tutta rivolta all’espressione della donna, tanto che nello stesso anno realizza alcuni pregevoli studi ad olio. Sono del 1882 la prima versione definitiva del tema, con quelle tipiche cromie intense e struggenti, che verranno ripetute in tutte le altre versioni; e quella grande, esposta all’Esposizione di Roma del 1883, acquistata da re Umberto I e oggi vanto della Galleria Nazionale d’Arte Moderna di Roma. Il successo dell’opera rende il pittore famosissimo e lo spinge a eseguire nel 1883 altre due repliche, entrambe custodite oggi in collezioni private: la prima, di medie dimensioni, molto vicina alla versione romana; la seconda, di grande formato, più intima e di eccezionale vigore artistico. Cinque declinazioni dello stesso tema, in cinque differenti formati, nell’arco di soli due anni. E tutte di eccelsa qualità pittorica, tanto che a volte le repliche sembrano superiori alle prime versioni. Nel dipinto in mostra, infatti, replica datata 1883, sentimento della fede, profonda liricità espressiva, meditazione intimista e nitore della visione si uniscono mirabilmente in un tessuto cromatico di rara efficacia: ne risulta una versione di tono più scuro rispetto a quella di Roma, più delicata, più intima, più raccolta.
Domenico Induno
La visita alla balia, 1861 circa
Olio su tela, 75 x 98 cm
Nel repertorio dei soggetti di genere prediletti dai collezionisti di Domenico Induno quello della visita alla balia ha avuto un posto privilegiato almeno dal 1863, anno in cui il pittore ha presentato alla mostra annuale di Belle Arti di Brera “La visita alla nutrice”, una tela eseguita su commissione del conte Francesco Turati. Esposta nell’occasione insieme ad altre tre opere di genere – “Un pensiero a Garibaldi”, “Un libro interessante” e “Una madre” – l’opera non entusiasma la critica che nel recensire le sue opere si sofferma su “Un libro interessante”, una piccola tela raffigurante una giovane donna intenta alla lettura de “I miserabili”, e su “Un pensiero a Garibaldi”, un dipinto che dietro la narrazione di un brano dell’umile vita quotidiana di una giovane modista celava «una grande epopea» contemporanea, quella tristemente conclusasi con la disfatta in Aspromonte del generale Garibaldi, amatissimo dal popolo, ma tradito, ferito e arrestato per mano dell’esercito italiano.
III SEZIONE
La varietà del paesaggio italiano
Alle profonde differenze sociali e culturali che contraddistinguono le zone della penisola corrisponde una spiccata eterogeneità paesaggistica, fattore che fin dal diciottesimo secolo pone l’Italia al vertice delle destinazioni del Grand Tour internazionale. In un’area territoriale relativamente piccola si susseguono infatti catene montuose, colline rigogliose, fertili pianure solcate da fiumi, specchi d’acqua lacustri dalle sponde pittoresche, variegate coste marine ed isole. Nel più allargato contesto dell’Italia unita la varietà del patrimonio paesaggistico nazionale costituisce un forte richiamo per i pittori. Inoltre, con la scoperta della montagna da parte delle élites e il conseguente fenomeno dell’alpinismo e delle villeggiature presso le stazioni ad alta quota, i pittori allargano il raggio del loro interesse paesaggistico, dedicandosi con notevole impegno alla raffigurazione delle cime alpestri e dei ghiacciai perenni.
Antonio Fontanesi
Aprile. Sulle rive del lago del Bourget in Savoia, 1864
Olio su tela, 102 x 153 cm
L’opera mostra al suo interno una serie di scene minori: il piccolo quadrato con i due pastorelli sdraiati in un letto d’erba assolato, quello delimitato sui lati dai due alberi slanciati che inquadrano la vela latina sullo specchio lacustre, la quinta d’alberi sulla destra con i fusti dei tronchi che s’incrociano. Il dipinto ha, inoltre, un’importante storia collezionistica. Acquistato dalla Società Promotrice torinese per 1.600 lire, venne sorteggiato tra i soci e nel 1864 toccò in sorte al pittore cav. Guido Gonin. Nel 1901, quando è esposto nella sala personale dedicata a Fontanesi dalla Biennale di Venezia, il dipinto risulta già di proprietà dell’avvocato milanese Giacinto Gallina, dopo un passaggio nella collezione Giovanni Torelli di Milano. Entra poi in possesso del banchiere milanese comm. Mario Rossello. In seguito esso è esposto in occasione delle maggiori rassegne fontanesiane, ma solo sino agli anni trenta. Da allora non era mai più stato visto in Italia. Solo nel 1977-1978 il dipinto partecipò alla storica mostra “Fontanesi, Ragusa e l’arte giapponese nel primo periodo Meiji” tenutasi a Tokyo e a Kyoto. Per oltre ottant’anni divenne dunque una sorta di “capolavoro sconosciuto” in Italia. La recente esposizione monografica “L’Aprile di Fontanesi. La rivoluzione del paesaggio”, che all’inizio del 2016 è stata dedicata dalle Gallerie Maspes al dipinto, ha finalmente consentito al pubblico di rivederlo dopo un accurato restauro.
Guglielmo Ciardi
Estate, 1872 circa
Olio su tela, 46 x 90 cm
All’esposizione milanese l’opera venne apprezzata e ampiamente recensita, nonostante il pubblico di Brera fosse poco avvezzo ai dipinti di Ciardi. Un signore di Bruxelles acquistò la tela e varie altre opere tra cui le sculture di Giuseppe Somajni, di Pietro Dal Negro e di Pietro Calvi, tutte spedite in Belgio a fine mostra, assicurate per il trasporto via terra con il Lloyd Germanico di Berlino dal signor Giulio Menhart a favore di una società di artisti di Bruxelles. L’ipotesi che questo acquirente fosse un gallerista spiegherebbe il motivo della presenza del dipinto all’Esposizione Universale di Vienna l’anno successivo, dove venne esposto con il titolo “Campagna trevigiana”. Come si evince dal regesto pubblicato in questo catalogo nel corso di varie vicende espositive il titolo del quadro venne ripetutamente modificato.
IV SEZIONE
Il quotidiano familiare della nuova borghesia
Dopo l’unità nazionale si diffondono tra le arti figurative di tutta Europa temi appartenenti al repertorio di genere ambientati nella contemporaneità. Protagonista di queste composizioni è la borghesia, la classe sociale che nel secondo Ottocento si afferma e si consolida conquistando le posizioni di maggiore potere politico ed economico nella struttura gerarchica della società. Si tratta di un ceto eterogeneo e variegato, che comprende gli esponenti di spicco del mondo delle imprese e dei commerci e, a seguire, avvocati, notai, medici, insegnanti e impiegati. Nelle immagini elaborate dagli artisti compaiono i principali momenti della quotidianità borghese, in cui predominano le figure femminili che secondo la morale del tempo devono gestire la casa e la vita familiare. Pittori e scultori illustrano i diversi aspetti della dimensione casalinga della donna moderna: dalla lettura a passatempi quali la musica e la pittura, il rapporto con la servitù, le relazioni all’interno del clan familiare e della rete di amicizie. Particolare importanza rivestono le visite, ma i temi in cui predomina la rappresentazione della donna sono quelli inerenti alla maternità.
Silvestro Lega
La curiosità, 1866 circa
Olio su tela, 70 x 51,5 cm
Nel 1866 l’opera venne esposta alla Promotrice di Genova e l’anno dopo a Verona, poi se ne persero le tracce fino agli anni quaranta del ’900 quando per il tramite di Mario Vannini Parenti pervenne nella raccolta di Giacomo Jucker. Fu nell’ambito della catalogazione di quella prestigiosa collezione che nel 1968 Marisa Dalai Emiliani propose di identificare il dipinto con quello intitolato “L’aspettativa”, esposto a Genova nel 1869 e l’anno seguente a Parma. Proposta non sostenibile, come lascia intendere la testimonianza di Telemaco Signorini, il quale nel 1896 scriveva come, con l’avanzare dell’età, l’arte di Lega avesse perduto i «toni locali», quelle «particolarità di dettaglio», quelle «analisi di forma», che distinguevano quadri quali “L’elemosina”, “La curiosità”, “Gli sposi novelli”; e elogiando «la sincerità d’interpretazione del vero reale» che connotava quei dipinti, ricordava come a Parma nel 1870 Silvestro avesse dato prova della propria sapienza compositiva e poetica grazie all’esposizione di opere eccellenti fra cui “L’aspettativa”, che gli meritarono la medaglia d’argento.
Tranquillo Cremona
Il figlio dell’amore, 1873 circa
Olio su tela, 53,5×68,5
Poche settimane dopo la morte precoce ed improvvisa di Cremona, all’epoca della mostra organizzata nel 1878 presso il ridotto della Scala dall’amico e mercante Vittore Grubicy, la tela era nelle mani di quest’ultimo. L’anno successivo il dipinto si trovava nella raccolta di Carlo Borghi per poi passare in quella di un altro amico degli scapigliati, Luigi Della Beffa. Almeno dal 1899 la tela era dell’industriale milanese Ernesto De Angeli per poi giungere ai suoi eredi e infine agli attuali proprietari. Il gioco di sguardi o di gesti tra due figure unite da un legame amoroso o affettivo è il tema di opere tra le più note del suo catalogo: al primo filone appartengono dipinti come il giovanile “Un falconiere” o opere della maturità quali “Attrazione” e “L’edera”. Al filone degli affetti appartengono “I due cugini” e “Amore materno”. Sono lavori nei quali Cremona si presenta a tutti gli effetti come il campione di quella “pittura di sentimento” che la critica indicava come una sua specialità.
Giacomo Favretto
Dopo il viaggio, 1873
Olio su tela, 26,5 x 29 cm
Rigoroso saggio di pittura del vero, la tela ci introduce tra le mura domestiche di casa Favretto, un ambiente vissuto intimamente dal pittore e che ha come protagonisti il padre ed una sorella del pittore. Figure, ambiente, oggetti, tutto è familiare, noto, amato e restituito sulla tela con sorprendente lucidità e fedeltà al vero, plasmato dalla luce e dal colore.
Giacomo Favretto
I miei cari (Un articolo interessante), 1874 circa
Olio su tela, 25 x 28 cm
Impaginato con metrica rigorosa e accordato su mirabili toni di bruni, grigi e marrone, il quadro restituisce con lucida verità un momento di vita quotidiana entro le mura di casa Favretto. La scena si svolge in un ambiente raccolto e modestamente arredato e ha di nuovo come attori principali il padre e la sorella del pittore. L’anziano genitore è colto immerso nella lettura, il soprabito è ancora indossato, l’ombrello e la paglietta sono appoggiati sul divano; la giovane donna sembra invece estranea a tutto ciò che la circonda: pensierosa, forse annoiata, mescola lentamente il suo caffè senza apparentemente desiderare di berlo.
Giacomo Favretto
Buon viaggio, 1881 circa
Olio su tela, 44,5 x 63 cm
L’opera raffigura il momento del commiato di una giovane signora dalle sue amiche che la salutano sulla soglia di casa mentre la guardano allontanarsi comodamente seduta in gondola. Il cronista della dispensa di “Milano illustrata” la racconta così: «La casa è una di quelle vetuste che l’artista ammira sulla laguna e che conservano le tracce dell’antica ricchezza nelle linee monumentali della porta; ma ormai è biancheggiante di calcinacci che, illuminati dal sole e specchiati nell’acqua, danno una tinta chiara a tutto il quadro. Gli abiti delle signore sono di colore spiccato, e fanno contrasto coi muri, mentre la gondola taglia l’acqua, portandovi in mezzo una nota bruna».
V SEZIONE
Uno sguardo oltre il confine: gli italiani a Parigi e la Maison Goupil
Oltre a svolgere il ruolo di principale centro europeo di elaborazione delle novità culturali e della sperimentazione nel campo delle arti figurative, Parigi si dimostra all’avanguardia anche grazie all’attività di alcune gallerie d’arte organizzate secondo criteri operativi assolutamente innovativi. Tra queste si distingue quella fondata da Adolphe Goupil, in origine produttore e mercante di stampe, che commissiona scene di genere, anche in costume, da riprodurre serialmente secondo le tecniche litografiche più sofisticate e da rivendere attraverso una rete di filiali all’estero. Tra gli artisti italiani ivi impegnati primeggiano Giuseppe De Nittis e Giovanni Boldini, dediti entrambi alla rappresentazione di eleganti scene di vita contemporanea dell’alta società in cui protagonista è la donna, interpretata come creatura idealizzata attraverso la grazia e la bellezza. I due maestri utilizzano in maniera originale anche la tecnica del pastello colorato su carta, raggiungendo effetti di notevole efficacia espressiva.
Giuseppe De Nittis
Eleganze ad Hyde Park, Londra, 1876
Olio su tela 43 x 33 cm
Riapparso sul mercato antiquario solo in tempi recenti, il quadro contribuisce a pieno titolo all’affermazione del pittore a Parigi e Londra. Il livello della fattura, la piacevolezza della scena, le dimensioni adatte a trovare la giusta collocazione in qualche dimora borghese, giustificano infatti la supposizione di una vendita immediata, probabilmente effettuata dallo stesso artista, ormai libero da due anni dal vincolo contrattuale con la Maison Goupil. Come notava Ugo Ojetti riflettendo sul successo di De Nittis rispetto agli Impressionisti, «la rivoluzione non era nel dipingere la vita quotidiana, ma nel dipingerla come la si vedeva». Dipingendo e definendo nei dettagli quanto appariva davanti ai suoi occhi, De Nittis offre «un elemento logico» che, così «entra nella sua creazione artistica. E il pubblico se ne compiace perché è più facile capire e “riconoscere” il soggetto d’un quadro che godere una bella pittura».
Antonio Mancini
Scugnizzo con salvadananio, 1874
Olio su tela, 64 x 51 cm
Antonio Mancini, figlio di un muratore e promettente allievo di Morelli, appare dotato di una versatilità creativa oltre misura che dà luogo ad un nuovo modello di naturalismo. Da subito concepisce suoi i soggetti dell’infanzia povera, di quell’umanità diseredata «figlia di un dio minore», di toccante segno intimistico, con raffigurazioni che impressionano per la condizione di sofferenza o di abbandono, in cui si trovano i bambini di strada. L’opera precorre un tema caro al pittore, quello dello Scolaro povero, da cui prende spunto un pensiero successivo che Mancini intende sperimentare e replicare, adattandolo in formati e con diversi sfondi. La tenera espressione del nostro bambino di profilo, con la sua folta chioma corvina, lanosa e ribelle si staglia sullo sfondo di un interno luminoso, in cui l’accecante sintonia di contrasti fondati sulla varietà dei bianchi conferma l’affermazione di un modo di fare pittura in maniera del tutto nuova, come Fortuny aveva indicato.
Giovanni Boldini
Emiliana Concha de Ossa (Pastello rosa), 1887-1888
Pastello su tela, 130 x 130 cm
Da accurate indagini diagnostiche non invasive è emerso come Boldini abbia asportato la zona del volto per cancellare le tracce di pigmento sottostante, creando in questo modo un dislivello su tutto il perimetro del viso. Questo elemento ci permette di cogliere la quantità di materia stesa sulla tela. Con la retroilluminazione si è visto che lo spessore della materia ottenuto dalla sovrapposizione dei colori è tale da non far filtrare la luce se non nella zona del volto, come se all’epoca della realizzazione di quel ritratto il pittore fosse poco esperto o stesse sperimentando la tecnica di fissaggio di strati diversi di colore. Inoltre, è emerso che, sovrapponendo il volto del “Pastello bianco”, custodito alla Pinacoteca di Brera, con quello del “Pastello rosa”, l’ingombro, le dimensioni, la posizione, i tratti e le espressioni risultano pressoché identici. Alla luce di ciò, è sorto il dubbio che quanto pensato finora sulla cronologia dei due ritratti fosse da invertire e che il “Pastello rosa” potesse essere il prototipo del “Pastello bianco”. Questa supposizione è avallata anche dal fatto che mentre il “Pastello bianco” rientra nello schema di ritratto a figura intera femminile inaugurato nel 1887 da Boldini, il “Pastello rosa” se ne discosta per la dimensione della tela, per il taglio quadrato, per la scelta di effigiare Emiliana fino a tre quarti, ritraendola con un abito molto coprente e di fattura meno leggera e vaporosa degli altri, anche se di qualità eccelsa. Questo, in effetti, è l’unico caso in cui, eccetto il viso, il pittore non lascia intravedere alcuna zona nuda del corpo.
VI SEZIONE
Suggestioni dall’antico e dall’esotico
Negli anni posteriori all’unità nazionale inizia a diminuire il gradimento da parte del pubblico nei confronti di temi ispirati al ricco repertorio storico, letterario e sacro. Tali soggetti non scompaiono ma si trasformano attraverso una interpretazione stilistica ed espressiva rinnovata alla luce delle poetiche del vero. I temi ambientati in un passato classico, medievale o rinascimentale acquistano un tono attuale ed estemporaneo, diventando vere e proprie scene di genere in cui il colore e la luce rivestono un ruolo predominante e innovativo. Negli stessi anni in tutta Europa si diffonde inoltre il fenomeno dell’esotismo, a cominciare dal successo di oggetti d’arte e d’arredamento provenienti dal Medio Oriente e dal Nord Africa ma anche dall’India e dal Giappone, che integrano l’assetto eclettico delle dimore dell’aristocrazia e dell’alta borghesia del tempo in un confronto stimolante tra stili diversi.
Alberto Pasini
Un marché à Costantinople, 1874
Olio su tela, 130 x 105 cm
Costantinopoli diverrà il luogo principale raffigurato negli anni a seguire e Pasini lo declinerà in decine di varianti e soluzioni, con dipinti molto particolari ed originali che si distingueranno in maniera evidente dalle altre opere di soggetto orientalista. L’artista non cadrà mai nel tranello di raffigurare le consuete scene richieste dall’Occidente per definire la propria identità; harem, bagni, odalische non rientreranno mai nel suo orizzonte figurativo. Vi rientreranno invece le scene di vita quotidiana, e tra queste le numerose e affollate scene di mercato. Una pittura che prenderà le distanze da quella degli altri interpreti della stagione orientalista dell’800, creando immagini nuove, nella costante ricerca di aprire un dialogo artistico con una cultura altra, attraverso la presentazione “dall’interno” dei suoi contenuti, usi, costumi, atmosfere.
VII SEZIONE
Il lavoro e la nuova sensibilità ai risvolti sociali
Nell’ultimo quarto dell’Ottocento, sia pure con alcuni squilibri tra il nord industrializzato e il meridione ancora rurale, l’economia e il lavoro in Italia assumono connotati simili a quelli delle altre nazioni europee. Le città si ingrandiscono e accolgono nei loro opifici la nuova classe operaia, le cui condizioni di lavoro si presentano spesso precarie e inique; in reazione il proletariato si organizza in camere del lavoro per rivendicare e tutelare i propri diritti. Come gli scrittori, anche gli artisti registrano puntualmente la nuova realtà urbana delle fabbriche e dei lavoratori, evidenziando con un tono di denuncia sociale gli aspetti più negativi del fenomeno, quali lo sfruttamento femminile e minorile, la indigenza, la malattia, l’abbandono durante gli anni della vecchiaia: condizioni cui cerca di porre rimedio la fitta rete delle istituzioni filantropiche e assistenziali laiche e confessionali del tempo.
Emilio Longoni
La piscinina, 1889-1890
Olio su tela, 126 x 71 cm
L’opera è firmata e datata, ma grazie a recenti indagini scientifiche sappiamo che la data fu apposta successivamente, utilizzando un pigmento viola diverso da quello con cui era stata tracciata la firma. L’aggiunta si può collocare prima del 1895, quando il dipinto era già nella raccolta dell’industriale della chimica Pietro Curletti, grande mecenate, collezionista e sostenitore di Longoni, del quale possedeva alcuni celebri capolavori come “Chiusi fuori scuola” e “Riflessioni di un affamato”. Nel 1891 Accanto a “La Piscinina” l’artista esponeva alla prima Triennale di Brera due dipinti, “Sole d’inverno” e “L’oratore dello sciopero”. La partecipazione alla mostra è un momento cruciale, di svolta per la carriera di Longoni, che ribadisce ancora una volta l’interesse per i temi sociali. È in questo momento inoltre che l’artista si apre alle sperimentazioni divisioniste. Con i lavori esposti nel 1891 Longoni conquista per la prima volta l’attenzione del pubblico e della critica; tuttavia il soggetto affrontato nella Piscinina e la sua esecuzione tradizionale decretarono il successo della tela.
Angelo Morbelli
Venduta!, 1897
Olio su tela, 67 x 107 cm
Nel 1888 la rivista londinese “Pall Mall Gazette” aveva compiuto un’inchiesta sul mercato della prostituzione. Per questo motivo all’Italian Exhibition tenutasi a Londra in quell’anno, Morbelli espose una versione antecedente di “Venduta” con il titolo “A Pall Mall Gazette Subject”. La corrispondenza avuta con Grubicy, titolare dell’omonima galleria d’arte ambrosiana e organizzatore della mostra londinese, prima della spedizione del quadro in Inghilterra, ci permette di cogliere le difficoltà affrontate dall’artista per la realizzazione di questa versione. La scelta di intitolare il quadro presentato a Londra come la testata del giornale inglese, noto per l’audacia nel proporre temi di cronaca particolarmente scomodi, potrebbe essere nata da una proposta di Grubicy, sempre attento ad aiutare gli artisti della sua scuderia a scegliere titoli adatti. Nel nostro caso, se di denuncia si vuole parlare, Morbelli impara a farlo in modo più delicato, scegliendo, grazie alla tecnica divisionista, di inondare la scena di luce di speranza, calda e delicata.
VIII SEZIONE
Oltre il reale
Negli anni novanta dell’Ottocento gli artisti italiani iniziano a mostrarsi sensibili nei confronti della cultura decadentista in tutta Europa. Oltre a una circolazione sempre più a largo raggio delle immagini, attuata grazie alle riviste illustrate (come “Emporium”) e alla fotografia, il circuito delle mostre d’arte internazionali agevola la diffusione di modelli figurativi d’avanguardia ed esotici. Dal 1895 anche in Italia viene organizzata una grande rassegna, l’Esposizione Internazionale della città di Venezia, che apre i suoi battenti al pubblico a cadenza biennale. Gli artisti cercano ora di cogliere gli aspetti reconditi e segreti del mondo reale, o addirittura di rappresentare suggestioni oniriche e spirituali, ispirandosi a letteratura, poesia e musica. Tra i primi ad avvicinarsi alle poetiche del Simbolismo internazionale sono i pittori che adottano l’uso della tecnica divisionista che, pur basandosi su principi scientifici, raggiunge effetti espressivi estremamente lirici, congeniali a esprimere ciò che può essere immaginato oltre il reale.
Giovanni Segantini
Petalo di Rosa, 1890
Olio su tela con aggiunte a foglia e polvere d’oro, 64 x 50 cm
Quel soggetto di genere fu realmente ideato e realizzato da Segantini? Ecco i dati di cui disponiamo: Segantini ed Emilio Longoni tra il 1881-1882 e il 1884 avviano un rapporto di collaborazione, entrambi alle dipendenze della galleria d’arte di Vittore e Alberto Grubicy. I due amici sono impegnati in un programma di formazione e di perfezionamento finalizzato alla produzione di opere destinate alla vendita. Longoni non ebbe solo il ruolo di un mero esecutore, la possibilità di scambiarsi idee e invenzioni fu reciproca. In merito all’acquarello della Tisi, esso rimase al sicuro nelle mani di Segantini, per poi ricomparire sul mercato nel 1967. È probabile, perciò, che il dipinto che si trovava sotto la stesura di “Petalo di rosa”, fosse la Tisi di Emilio Longoni. A fine gennaio 1890, il dipinto risulta definitivamente ultimato, per cui si richiede la predisposizione di una cornice particolare. L’artista avrebbe spedito definitivamente il dipinto a Milano ad Alberto solo il 17 maggio 1891, forse per avere accanto a sé il bel volto di Bice, sua compagna di vita qui ritratta, circondato d’oro mentre stava ancora lavorando alla visione innevata delle Lussuriose.
Giuseppe Pellizza da Volpedo
Membra stanche, 1905-1906
Olio su tela, 127 x 164 cm
L’opera raffigura il riposo di una famiglia di emigranti dopo un lungo cammino, scena famigliare all’artista: l’immagine dei lavoratori stagionali che dall’Appennino scendevano in pianura per lavorare nelle risaie della Lomellina e del vercellese, riprendendo la strada di casa qualche mese dopo. Il quadro ebbe una lunghissima gestazione: la prima testimonianza si rintraccia in una lettera inviata alla fine del luglio 1894 all’amico Gaetano Tumiati, dove probabilmente si cita lo studio a matita attualmente di collezione privata. Successivo è il bozzetto a olio quadrettato che reca una doppia data, traccia di una lavorazione protrattasi nel tempo. Nella tavoletta alle protagoniste femminili si aggiunge l’uomo sdraiato in primo piano, connotazione del gruppo famigliare. Per qualche anno Pellizza sembra accantonare il dipinto, ma dal gennaio 1903 vi si dedica nuovamente e da quel momento in avanti il dipinto in esame è associato a “Il ponte”, dove l’artista raffigura di nuovo il torrente Curone. Lo rivela un appunto del 2 maggio 1903 nel quale sono annotati le misure del bozzetto e della tela finale, ma anche la successiva lettera al direttore de “Il Tempo” di Milano, Claudio Treves. A questo momento dovrebbe risalire il magnifico cartone preparatorio di collezione privata, ma la tela definitiva fu iniziata probabilmente soltanto verso il 1905, con l’intenzione di presentare il quadro a Milano l’anno successivo. Il viaggio in Engadina compiuto all’inizio dell’estate 1906 e le sperimentazioni sul paesaggio condotte in quelle giornate d’alta montagna suggerirono a Pellizza di sviluppare il fondale con il profilo di vette alpine. Questo nuovo elemento completava la composizione fornendo un orizzonte di speranza allo sguardo dei protagonisti.
Carlo Fornara
L’aquilone, 1902-1904
Olio su tela, 141 x 159 cm
“L’Aquilone” è un dipinto che ben rappresenta il crinale della cultura del pittore, sino al 1897 orientato su un versante di acquisizioni filo francesi sulla intensità del colore e la qualità della materia pittorica, combinate con lo studio di inusuali tagli prospettici. Per Fornara il debito intrattenuto con le lunghe osservazioni di dipinti ammirati a Parigi affiora nella sensibilità “nabis” con cui impagina i piani prospettici, concepiti come fasce parallele di ordinata e uniforme piattezza. Ma i toni accesi e contrastanti, l’astrazione dello spazio e le sagome piatte includono l’opera tra gli scenari di un territorio onirico dell’anima più che tra quelli di una regione fisica della terra. Per arricchire di brillantezza l’aria e il terreno della sua visione, Fornara aveva sminuzzato oro in foglia nel terreno accanto agli alberi e unito al colore nel cielo e tra i rami polvere d’oro bianco, per dare il senso della neve turbinante in aria per il vento.
Leonardo Bistolfi
Testa dell’Alpe, 1906-1910
Marmo, 5 x 45,5 cm
Esistono nell’Archivio Cometti alla Wolfsoniana di Genova alcuni disegni che documentano repliche dell’opera. La testa marmorea de “L’Alpe” proveniente da una collezione privata torinese e che riporta la dedica a Luigi Sacchetti, si inscrive in una serie di altre due realizzazioni pressocché identiche nell’impostazione del basamento e anche della scultura stessa. Esse sono: il marmo appartenente alle collezioni della Galleria d’Arte Moderna di Milano e il marmo conservato a Genova presso le Raccolte Frugone. La testa in bronzo della Galleria d’Arte Moderna di Milano e la testa in marmo proveniente dalla Istituzione Casa della Musica di Parma – Museo Casa Natale di Arturo Toscanini non rappresentano affatto “L’Alpe”: le due teste di donna sono da mettersi in relazione con la figura della “Morte” dalla “Tomba Abegg”, o “Verso la luce”, come a volte la chiamava lo scultore, realizzata nel 1913 nel cimitero di Zurigo.
24 OTTOBRE 2020 – 24 GENNAIO 2021
CASTELLO SFORZESCO DI NOVARA
Ugo Foà, Presidente della Comunità Israelitica di Roma tra il 1941 e il 1944, e Dante Almansi, Presidente dell’Unione delle Comunità Israelitiche Italiane dal 1939 al 1944, vengono convocati da Herbert Kappler, Capo della Polizia di Sicurezza tedesca (Sipo) a Roma, a Villa Wolkonsky, sede dell’ambasciata tedesca fino all’occupazione. Kappler chiede la consegna di 50 chili d’oro alla Comunità, pena la deportazione di 200 dei suoi membri.
Fondazione Museo della Shoah, Roma Fondo David Calò
Settimia Spizzichino
Nasce il 15 aprile del 1921 ed è la quarta di sei figli. In un primo tempo la famiglia vive a Tivoli dove il padre, Marco Mosè Spizzichino, è commerciante. Dopo la promulgazione delle leggi antiebraiche, persa la licenza del negozio, la famiglia decide di trasferirsi a Roma, presso le figlie Ada e Gentile ormai sposate.
Il 16 ottobre i nazisti irrompono nell’appartamento di via della Reginella 2, dove gli Spizzichino risiedono. Con la prontezza che la contraddistingue, Settimia riesce a salvare la sorella Gentile e i suoi tre figli dichiarandoli non ebrei. Lei viene però deportata con la madre Grazia Di Segni, le sorelle Giuditta e Ada, la nipotina Rosanna di solo 18 mesi.
All’arrivo a Birkenau solo Settimia e Giuditta superano la selezione, mentre le altre vengono mandate alle camere a gas. Giuditta, purtroppo, non sopravvive al lavoro schiavo.
Settimia, immatricolata con il numero 66210, viene successivamente trasferita ad Auschwitz I per essere sottoposta a una terribile sperimentazione medica a cui miracolosamente sopravvive. Nel gennaio del 1945 deve affrontare anche la “marcia della morte” verso il campo di Bergen-Belsen, dove rimane fino all’arrivo degli inglesi. L’11 settembre rientra finalmente a Roma.
Settimia è una delle prime persone sopravvissute ad Auschwitz a testimoniare il dramma della Shoah, impegno che avrebbe onorato per tutta la vita.
Nel 1996 esce il suo libro: Gli anni rubati. Muore il 3 luglio 2000 a Roma.
Nasce il 15 aprile del 1921 ed è la quarta di sei figli. In un primo tempo la famiglia vive a Tivoli dove il padre, Marco Mosè Spizzichino, è commerciante. Dopo la promulgazione delle leggi antiebraiche, persa la licenza del negozio, la famiglia decide di trasferirsi a Roma, presso le figlie Ada e Gentile ormai sposate.
Il 16 ottobre i nazisti irrompono nell’appartamento di via della Reginella 2, dove gli Spizzichino risiedono. Con la prontezza che la contraddistingue, Settimia riesce a salvare la sorella Gentile e i suoi tre figli dichiarandoli non ebrei. Lei viene però deportata con la madre Grazia Di Segni, le sorelle Giuditta e Ada, la nipotina Rosanna di solo 18 mesi.
All’arrivo a Birkenau solo Settimia e Giuditta superano la selezione, mentre le altre vengono mandate alle camere a gas. Giuditta, purtroppo, non sopravvive al lavoro schiavo.
Settimia, immatricolata con il numero 66210, viene successivamente trasferita ad Auschwitz I per essere sottoposta a una terribile sperimentazione medica a cui miracolosamente sopravvive. Nel gennaio del 1945 deve affrontare anche la “marcia della morte” verso il campo di Bergen-Belsen, dove rimane fino all’arrivo degli inglesi. L’11 settembre rientra finalmente a Roma.
Settimia è una delle prime persone sopravvissute ad Auschwitz a testimoniare il dramma della Shoah, impegno che avrebbe onorato per tutta la vita.
Nel 1996 esce il suo libro: Gli anni rubati. Muore il 3 luglio 2000 a Roma.
Fondazione Museo della Shoah, Roma Fondo David Calò
Dante Almansi sul suo colloquio con Herbert Kappler, in Silvia Haia Antonucci, Claudio Procaccia, Gabriele Rigano, Giancarlo Spizzichino, Roma, 16 ottobre 1943. Anatomia di una deportazione, Milano, Guerini e associati, 2006.
“Voi e i vostri correligionari avete la cittadinanza italiana, ma di ciò a me importa poco. Noi tedeschi vi consideriamo unicamente ebrei e come tali nostri nemici. Anzi, per essere più chiari, noi vi consideriamo come un gruppo distaccato, ma non isolato dei peggiori fra i nemici contro i quali stiamo combattendo. E come tali dobbiamo trattarvi. Però non sono le vostre vite né i vostri figli che vi prenderemo se adempirete alle nostre richieste. È il vostro oro che vogliamo per dare nuove armi al nostro paese. Entro 36 ore dovete versarmene 50 Kg. Se lo verserete non vi sarà fatto del male. In caso diverso, 200 fra voi verranno presi e deportati in Germania alla frontiera russa o altrimenti resi innocui.”
Da G. Debenedetti, 16 ottobre 1943, Torino, Einaudi, 2001.
“Effettivamente, la sera del 26 settembre 1943, il presidente della Comunità Israelitica di Roma e quello dell’Unione delle Comunità Italiane – tramite il dott. Cappa, funzionario della Questura – erano stati convocati per le ore 18 all’Ambasciata Germanica. Li ricevette, paurosamente cortese e «distinto», il Maggiore delle SS Herbert Kappler, che li fece accomodare e per qualche momento parlò del più e del meno in tono di ordinaria conversazione. Poi entrò nel merito: gli ebrei di Roma erano doppiamente colpevoli, come italiani […] per il tradimento contro la Germania, e come ebrei perché appartenenti alla razza degli eterni nemici della Germania. Perciò il governo del Reich imponeva loro una taglia di 50 chilogrammi d’oro, da versarsi entro le ore 11 del successivo martedì 28. In caso di inadempienza, razzia e deportazione in Germania di 200 ebrei. Praticamente: poco più di un giorno e mezzo per trovare 50 chili d’oro.”